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Giancarlo Colla "IL CERVINO … 42 ANNI DOPO"

9 agosto 1948: dal finestrino saluto mia madre, parto solo, in treno, destinazione: il Cervino. Pochi spiccioli in tasca, ma il grande entusiasmo dei 18 anni.Risalendo la valle in corriera la prima apparizione mozzafiato del Cervino.

A Valtournanche sale Gabriele. Ore 18: lasciamo le ultime casupole del caratteristico villaggio del Breuil (ora Cervinia), raggiunto l'Oriondè carichiamo due piccoli fasci di legna (servirà per la stufa al rif. Luigi Amedeo).Si risale attraversando diagonalmente i ghiacciai pensili del Leone, raggiungiamo l'omonimo colle completamente coperto di ghiaccio, al chiaro di luna raggiungiamo il rif. Luigi Amedeo, sono le 22, troviamo altri due alpinisti austriaci.

10 agosto 1948, ore 5: sta nevicando! Partiamo attaccando velocemente la parete sud, ci portiamo in cresta; raggiungiamo il Pik Tindal sferzati in viso dal nevischio ghiacciato, c'è nebbia, fa un freddo boia! Più avanti la scala Jordan pericolosamente incrostata di neve ghiacciata è quasi inservibile. Un'ultima raffica di vento, improvvisamente nel più azzurro dei cieli appare la croce: fantastico!
Sono le 7, in sole 2 ore dal rifugio siamo in vetta!

22 agosto 1990: un vero peccato! Ora Cervinia appare abbruttita da mega-costruzioni dagli stili più strampalati che non hanno alcun legame con l'ambiente alpestre che li circonda.
Insieme all'amico Pietro Tosi si sale in jeep all'Oriondè , da qui, ripetendo il vecchio percorso, saliamo il colle del Leone con sorpresa noto che il difficile pauroso colatoio di ghiaccio che serviva un tempo come via alternativa non esiste più. Da questo momento si procederà soltanto legati; attacchiamo subito delle ripide placche, arriviamo alla "cheminee" (diedro verticale di una ventina di metri con corda fissa) che ci troviamo? Nientemeno che l'on. Giorgio La Malfa, strettamente legato tra due guide, che si danno da fare per farlo scendere.
Superate ancora alcune placche a quota mt. 3800, raggiungiamo il rifugio Carrel, vero nido d'aquila (che sorge al fianco dell'ormai in disuso rif. Luigi Amedeo) tra le strapiombanti rocce della cresta sud-ovest.
Davanti a noi si staglia la possente mole della Dent D'Erens. Seduti sul ballatoio assistiamo ad un meraviglioso tramonto. Sotto di noi si accendono le prime luci di Cervinia. Rientriamo nell'affollatissimo rifugio (siamo 51!) ci allunghiamo sui pagliericci, ci stiamo ... un po' stretti!

23 agosto 1990, ore 4: già qualcuno comincia ad alzarsi, camminando pesantemente con gli zoccoli di legno, un attimo dopo (per imitazione) seguono gli altri in una confusione ed un rumore infernale. Accecati dall'abbagliante luce di decine di pile frontali decidiamo di non alzarci prima delle 6 (trattandosi di una via di roccia, è meglio procedere quanto è già chiaro; normalmente in 4 ore si arriva in vetta).

ore 6.30: riempiamo le borracce d'acqua, lasciamo tranquillamente il rifugio, siamo gli ultimi, convinti di avere qualche ora di distacco, ma ahimè, l'amara sorpresa! 20 metri sopra al rifugio, decine di cordate sono attestate da ore alla base della 1^ corda fissa, attendendo pazientemente il proprio turno per salire. A metà corda altri alpinisti appesi a "grappolo" non vanno né avanti né indietro. Di questo passo in vetta non si arriva più! Un'occhiata d'intesa e decidiamo di salire fuori pista: superata la corda, siamo tra i primi, ma ben presto, seguendo i nostri passi arrivano altre cordate, lo sguardo cupo, il fiato sul collo (c'è molto arrivismo) manca poco che ci appoggino i piedi sulla testa; è un arrampicare deludente e pericoloso. Con questo spirito si gioca al pallone, non si sale in montagna!
Meglio lasciarli passare avanti interponendo anche un certo distacco (ce ne pentiremo amaramente all'attacco delle prossime corde fisse).
Anche se in parete il percorso non troppo evidente (ci porta spesso fuori pista) basta il solito chiodo che appare improvvisamente in alto sopra le nostre teste a rassicurarci di essere nuovamente sul percorso giusto. Ora sulla destra sotto di noi scorgiamo tristemente quel che rimane del famoso "lenzuolo" (piccolo ghiacciaio pensile), poi ci troviamo alla base della "Gran Corda" (corda fissa che, penzolando quasi verticalmente per una cinquantina di metri, permette di superare vari passaggi di 4° grado).
Solite cordate in attesa di salire, soliti alpinisti in difficoltà aggrappati lungo il percorso, purtroppo qua è impensabile salire fuori pista; nell'attesa (che si protrae per circa un'ora!) abbiamo modo di osservare davanti a noi una lapide, messa a monito e a ricordo di un giovane alpinista tedesco che, presumibilmente per l'improvvisa rottura della corda fissa (troppo usurata) precipitò uccidendosi (una delle 1.500 vittime cadute finora sul Cervino, numero purtroppo destinato ad accrescersi, ultima una guida di Zermatt con il cliente precipitati settimana scorsa).
Finalmente la salita è libera! (A circa 4.000 metri arrampicare con 15 kg sulle spalle è veramente ... dura!) Il nostro pensiero va un attimo ai primi salitori, ai vari Carrel, Bich, ecc., rudi montanari, ma uomini eccezionali, visto che dovettero salire senza alcun punto di appoggio e per vie non attrezzate.
Usciamo in cresta, si sente battere un martello, sono due giovani alpinisti tedeschi che stanno salendo l'impervia parete ovest.
Si sale con cautela, raggiungiamo la sommità del Pik Tindal a m. 4.300, percorriamo la bellissima, aerea cresta sospesa tra due voragini; superati alcuni salti, arriviamo al termine; qui, calandoci in sicurezza, superiamo un ultimo passaggio ghiacciato e molto delicato, mettendo piede alla base della vetta; grazie anche ad alcuni chiodi fissi si procede costantemente in sicurezza su rocce sempre più ripide.
Siamo costretti a fare continue fermate per lasciare passare alpinisti che di ritorno scendono a corda doppia; superate due corde fisse raggiungiamo la "scala Jordan" (costruita con corde di canapa e piuoli di legno) "ciondolante" per una quindicina di metri su una levigatissima placca strapiombante nel vuoto.
Con un lancio l'afferro saldamente, penzolando un attimo nel vuoto (anche se assicurato dall'amico Pietro che mi aveva preceduto, fa sempre un certo effetto); la volta scorsa qui sono "volato" trattenuto a stento dall'amico Gabriele.
Una ventina di metri sopra la scala Jordan, alla base dell'ultimo sperone che ci separa dalla vetta, veniamo raggiunti dall'ennesima cordata che sta scendendo a corda doppia. Ci consigliano anziché in diretta di superarlo sulla sinistra che è ... "bellissimo" (nel gergo alpinistico)! seguiamo l'indicazione ... e, un attimo dopo ci troviamo imprecando con le "chiappe" nel vuoto, pochissimi appigli spioventi, per cui siamo costretti a salire quasi totalmente in aderenza; ancora qualche decina di metri e ... investiti da rabbiose raffiche di vento, sbuchiamo in vetta mt 4.476, nuovamente soddisfatto (anche se con meno denti e capelli di 42 anni fa, ma ... con lo stesso spirito da ragazzaccio. Una calorosa stretta di mano al caro, validissimo amico Pietro.
Sono le 15.30 e pensare che il medesimo percorso (cap. Carrel - Vetta) nel lontano 1948 l'abbiamo superato in 2 ore (le uniche persone incontrate durante l'intero percorso: 2 alpinisti austriaci). E' troppo tardi per trovarsi a questa altezza! Fortunatamente non c'è una nuvola, il panorama è bellissimo, indescrivibile! Due foto alla croce, si mangia qualcosa al riparo di alcune rocce, poi, alle 16.00 cercando di non essere travolti dalle forti raffiche, percorriamo l'affilata aerea cresta che porta alla vetta svizzera.
Non c'è più in giro anima viva. Contrariamente all'assolata e asciutta parete sud, ora scendiamo cautamente sulla nera, ripida parete nord, stretta in una morsa di ghiaccio vivo; si perdono le tracce, poi, più sotto troviamo un chiodo, segue una lunga corda fissa che, orizzontalmente porta verso destra, la seguiamo, anche se mi sembra troppo alta per uscire sulla "normale" della cresta dell'Horly, alcuni detriti non più bloccati dal ghiaccio, che si muovono sotto i piedi, ci fanno capire di trovarci quasi sulla parete est, sto scivolando di lato sul ripido pendio.
Torniamo indietro, un attimo di smarrimento: è mai possibile non trovare il passaggio chiave? Scendiamo alla cieca sul pendio ghiacciato, mettiamo i ramponi. Pietro improvvisamente scorge qualcuno che sta scendendo lungo la cresta nord-est alcune centinaia di metri sotto di noi, diamo un urlo, sperando di avere a gesti un'indicazione su dove poter scendere, ma sono troppo distanti, si fermano, poi riprendono la discesa.
Ora quasi a piombo sotto di noi, a 4.000 metri, possiamo scorgere il tetto del bivacco Solvay, scendiamo ancora, prima un chiodo, poi una corda fissa: siamo sul percorso giusto!
A differenza delle uniche due trovate tanti anni fa, ora le corde fisse in questo tratto sono almeno una decina; scendiamo velocemente infilandone una dopo l'altra, raggiungiamo e sorpassiamo le cordate viste dall'alto, scendiamo sulla ripida parete est seguendo qualche impronta e qualche chiodo fisso, raggiungiamo il bivacco Solvay.
Pietro vorrebbe proseguire subito per il rifugio Horly, sono le 19.00 siamo in parete dalle 6.30 del mattino, il tempo di percorrenza è di circa 4 ore, sorpresi dal buio sicuramente non ce l'avremmo fatta e saremmo costretti così ad un disagevole bivacco in parete.
Decidiamo di entrare nel bivacco, troviamo altri 9 giovani tedeschi, il bivacco è piccolissimo, niente acqua, una radio trasmittente, un pagliericcio ed alcune coperte formano l'unico arredamento. Siamo in 11: troppi! Sul pavimento non ci stiamo tuttim così preferisco dormire (si fa per dire) sdraiato su una grossa panca di legno.

24 agosto 1990, ore 6.00: vengo improvvisamente svegliato dal pesante rumore di passi sul ballatoio di legno, sono le prime cordate in arrivo dal versante di Zermatt, esco, l'aria è frizzante, la giornata stupenda. Noto con stupore sotto di noi un'interminabile colonna multicolore che sta salendo.La salita lungo la cresta dell'Horly è relativamente più facile che dal versante italiano e viene effettuata quasi esclusivamente sulla parete est, pur mantenendosi mediamente sulla linea di cresta.
Scendiamo, cercando di evitare di provocare pericolose cadute di sassi e scansando il più possibile la fastidiosa colonna di salitori.
Si scende con la bocca completamente secca, l'ultima acqua ottenuta dal ghiaccio sciolto è terminata ieri in vetta, ora la discesa quasi esclusivamente su rocce di 2° grado, (con qualche passaggio di 3°) anche se esposta è molto divertente. E' interminabile! Ancora qualche centinaio di metri e raggiungeremo la base; scorgiamo sotto di noi, seduti sull'ampio terrazzo del rif. Horly molti turisti che, con il naso all'aria probabilmente ci stanno seguendo.
Un turista (giapponese?) spintosi verso il termine della parete ci sta filmando; ancora alcuni metri ed è fatta: siamo al rif. Horly, sono le 10, unico desiderio: scolarci qualche litro di acqua e una telefonata a casa.

Si fa il punto della situazione, ora la facile pista di ritorno su ghiacciaio verso il passo Furghen da me percorsa nel lontano 1948, chiusa tra l'ora crepacciatissimo ghiacciaio da una lato e le continue violente scariche di sassi che scendono dalla parete est dall'altro, è sconsigliabile.

Scendiamo velocemente su sentiero allo Schwarzsee, arrivando appena in tempo a prendere la funivia che scende a Zermatt. Alla prima fermata prendiamo quella per il Piccolo Cervino, ora a piedi scendiamo sulle affollate piste del Plateau Rosà, quindi procediamo per Cervinia. Beviamo qualcosa e via, stanchi, ma soddisfatti, verso casa.

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